Negli ultimi anni sono stati circa 3300 gli impiegati pubblici scoperti dalla guardia di finanza a svolgere un doppio lavoro. Il guadagno totale di questi soggetti va complessivamente oltre i 20 milioni di euro con un danno alle casse dello Stato di 55 milioni di euro.
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Cosa si rischia con un doppio lavoro?; ecco gli ambiti di divieto per il secondo lavoro esercitato dai dipendenti pubblici o statali: il conflitto di interessi, l’abitualità e la professionalità
Doppio lavoro e dipendente pubblico/statale sono due concetti che se accostati possono creare non poche controversie. La possibilità, per un dipendente pubblico, di organizzare e portare avanti, implementandolo, un secondo lavoro in piena compatibilità con le regole dell’ordinamento italiano si configura certamente come una interessante opportunità. Ma in quale modo è possibile fare ciò?
L’interrogativo in merito alla legittimità del doppio lavoro per il dipendente pubblico reca con sé risposte non immediatamente chiare “Doppio lavoro cosa rischio?”: è infatti questo uno dei maggiori dubbi che attanaglia il dipendente che desidera intraprendere un doppio lavoro (parallelo a quello statale).
Insomma, un dipendente pubblico o statale può avere un doppio lavoro?, per esempio presso un privato, come libero professionista o come imprenditore con partita IVA? Ed eventualmente quali sono i limiti che definiscono questa possibilità? “Vige il principio di esclusività” affermano i giudici della Corte dei Conti: avere un secondo lavoro se si è dipendenti pubblici è possibile, ma occorre rispettare il quadro normativo e i regolamenti dei singoli enti per non rischiare con un doppio lavoro. Ma tale affermazione va chiarita facendo un piccolo passo indietro ed analizzando i principi che sorreggono il tema in ambito italiano.
Per chiarire il tema è necessario fare riferimento ai testi normativi fondamentali dell’ordinamento nazionale: concentrandosi pertanto sul combinato disposto formato dalla Costituzione e dalla legge italiana, attraverso i quali vengono delineati i margini applicativi della disciplina.
In tale direzione assume rilievo il documento redatto dal Dipartimento della Funzione Pubblica ed intitolato “Criteri generali in materia di incarichi vietati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”: quest’ultimo delinea gli ambiti di divieto per il doppio lavoro esercitato dai dipendenti pubblici. I criteri indicati in questo documento contribuiscono ad esemplificare una serie di situazioni di incarichi vietati per i pubblici dipendenti tratti dalla normativa vigente, dagli indirizzi generali e dalla prassi applicativa.
Le situazioni contemplate non esauriscono i casi di preclusione: rimangono infatti salve eventuali disposizioni normative che stabiliscono ulteriori situazioni di preclusione o fattispecie di attività in deroga al regime di esclusività.
Va detto che la tematica assume discreto rilievo in tempi come questi caratterizzati dalla spending review e dai blocchi (per ora difficili da scalfire) degli scatti di anzianità. In questa direzione svolgere un secondo lavoro in ossequio ed entro i confini tracciati dalla legge può essere una azione corretta per tutti i dipendenti pubblici che necessitino una integrazione dello stipendio. Per chiarire la situazione va in primo luogo affermato che esiste un dovere costituzionalmente tutelato di esclusività delle prestazioni da parte dei dipendenti pubblici: il dipendente statale è pertanto tenuto a garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’attività amministrativa (at. 97 della Costituzione) facendo convergere le proprie energie in maniera univoca verso la prestazione lavorativa al servizio dello Stato.
Secondo il documento sopra menzionato sono “da considerare vietati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche a tempo pieno e con percentuale di tempo parziale superiore al 50% (con prestazione lavorativa superiore al 50%) gli incarichi che presentano le caratteristiche della abitualità e professionalità e del conflitto di interessi”.
Doppio lavoro cosa rischio? Per quanto concerne invece i dipendenti pubblici con percentuale di tempo parziale pari o inferiore al 50% sono invece vietati gli incarichi che presentano solo le caratteristiche del conflitto di interessi. Esistono poi incarichi vietati a prescindere dal regime di orario tenuto dal dipendente: che interferiscono con l’attività ordinaria svolta dal dipendente pubblico in relazione al tempo, alla durata, all’impegno richiestogli, tenendo presenti gli istituti del rapporto di impiego o di lavoro concretamente fruibili per lo svolgimento dell’attività.
Ecco una rassegna minima ma esaustiva degli incarichi assolutamente vietati: – gli incarichi che si svolgono durante l’orario di ufficio o che possono far presumere un impegno o una disponibilità in ragione dell’incarico assunto anche durante l’orario di servizio; – gli incarichi che evidenziano il pericolo di compromissione dell’attività di servizio; – gli incarichi che si svolgono utilizzando mezzi, beni ed attrezzature di proprietà dell’amministrazione; Tutti questi incarichi devono essere egualmente considerati sia nel caso siano retribuiti che effettuati a titolo gratuito.
Le sanzioni previste per i dipendenti pubblici con un secondo lavoro non autorizzato, variano in primo luogo in base all’ordinamento interno di ogni singola amministrazione. Il regime disciplinare e il codice di comportamento del dipendente statale può essere talvolta difforme anche in considerazione dello status istituzionale del singolo dipendente in contrapposizione alla tipologia di infrazione commessa.
A livello base, l’impiegato che contravvenga ai divieti posti dal vecchio statuto degli impiegati civili viene diffidato dal Ministro o dal direttore generale competente, a cessare dalla situazione di incompatibilità entro 15 giorni. La circostanza che l’impiegato abbia obbedito alla diffida non preclude l’eventuale azione disciplinare che consiste solitamente in una pena spesso pecuniaria.
Dipendenti pubblici e doppio lavoro: un tema i cui confini sono da sempre sotto la lente d’ingrandimento della legge. Cerchiamo di analizzare in sintesi le caratteristiche che devono informare la prestazione al fine di renderla compatibile con i principi costituzionali in materia di Pubblica Amministrazione.
In tale direzione va, in primo luogo, sottolineato che la legge italiana traccia in maniera molto precisa i confini disciplinari della questione: tra i principi di rango costituzionale che che fungono da pilastro dell’ordinamento italiano le fondamenta dell’ordinamento italiano affiora infatti quello idoneo a tutelare l’interesse pubblico, elemento di rango primario che deve essere costantemente tenuto come “stella polare” dalla Pubblica Amministrazione. Tale interesse si manifesta anche nella forma del dovere di esclusività delle prestazioni da parte dei dipendenti pubblici: in pratica il dipendente impiegato presso la PA ha il compito di garantire l‘imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa dedicandosi in maniera integrale (mediante la propria prestazione lavorativa) all’ufficio cui è destinato, senza disperdere le proprie energie lavorative in attività diverse ed estranee da quelle relative al pubblico impiego.
Il contrafforte normativo basilare a tal riguardo è costituito dall’art. 1, comma 60, della legge 662/1996, con riferimento specifico ai dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo pieno o a tempo parziale con prestazione lavorativa superiore al 50% di quella a tempo pieno: per questi soggetti è posto il divieto di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo, a patto che la legge o altra fonte normativa ne prevedano l’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza (e l’autorizzazione stessa sia stata concessa).
Ma come si configura nella concreta realtà quotidiana il legittimo espletamento di incarichi extra-impiego (doppio lavoro) per i dipendenti comunali e dipendenti di enti locali? Che ci sia o meno retribuzione, la prestazione deve avvenire sempre al di fuori dell’orario di lavoro, senza avvalersi delle strutture e delle attrezzature dell’ufficio d’appartenenza e senza pregiudizio alcuno per lo stesso, assicurando l’esercizio imparziale delle funzioni, da parte del dipendente. Lo svolgimento di tali incarichi (sempre in relazione ai dipendenti impiegati a tempo pieno, o a tempo parziale con prestazione lavorativa superiore al 50%) è subordinato in maniera ineludibile e perentoria al preventivo rilascio dell’autorizzazione. Inoltre l’attività in questione deve essere esercitata in ossequio ai principi tecnici di occasionalità.
Ecco alcune prestazioni remunerate extra-lavoro che possono essere espletate previa la sola preventiva autorizzazione: la collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili, quando tali prestazioni non si traducano in attività prevalente, continuativa o professionale, oppure l’utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali. Con riferimento alla partecipazione a convegni o seminari (sia effettuata a titolo gratuito, sia qualora sia percepito unicamente il rimborso spese, va fatto un distinguo: risulta infatti necessario valutare se l’evento pubblico a cui il dipendente pubblico partecipa possieda in prevalenza un aspetto didattico e formativo. In questo caso risulta necessaria l’autorizzazione. Nel caso in cui invece vi sia prevalenza dell’aspetto divulgativo, allora vi è libertà (autorizzazione non necessaria).
Membri delle forze dell’ordine e doppio lavoro, un tema da trattare con i guanti: sta infatti emergendo negli ultimi tempi una questione abbastanza delicata e particolare. Si tratta della questione inerente alla polizia penitenziaria doppio lavoro. Il tema è balzato agli onori delle cronache svariate volte: in particolare a partire dal sopraggiungere improvviso della crisi economica (cominciata 5 anni fa ed andata incontro ad una evidente recrudescenza negli ultimi due anni).
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Fonte: repubblica.it
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A questo riguarda pare utile riportare una notizia abbastanza recente riguardante un assistente-capo della Polizia Penitenziaria, in servizio presso il carcere di Borgo San Nicola, che è stato denunciato per truffa continuata ai danni della pubblica amministrazione: l’uomo, regolarmente assunto come dipendente pubblico presso la Polizia Penitenziaria, è stato infatti sorpreso in un cantiere edile, dove praticava un (vietatissimo) secondo lavoro alle dipendenze di un committente privato. L’assistente-capo in questione è stato pertanto deferito presso la Procura della Repubblica per violazione della disciplina in materia di doppio Polizia penitenziaria doppio lavoro.
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Ma come è conformata la questione del doppio lavoro per i dipendenti di Polizia Penitenziaria? In realtà va detto che è possibile esercitare una doppia attività remunerata in maniera regolare e previa autorizzazione dalla propria amministrazione di riferimento: quello che conta è che l’attività sia in regolare sia per quanto riguarda gli aspetti fiscali per sia per quel che riguarda la compatibilità della seconda attività con l’operato in Polizia Penitenziaria.
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La crisi economica galoppante ha spalancato ferite già dolorose, spargendo cospicue dosi di sale sulla cute sofferente dei membri delle forze dell’ordine. Un’immagine simbolica che riesce però a rendere l’idea della difficile transizione che stanno attraversando i dipendenti pubblici impiegati presso i corpi di polizia nel nostro paese. Secondo Massimiliano Acerra, dirigente nazionale e responsabile ufficio studi del sindacato di polizia Coisp, almeno il 30 per cento dei dipendenti pubblici impiegati nelle forze dell’ordine svolge abitualmente un altro impiego part-time. Questo significa che oltre centomila persone, solo considerando carabinieri, poliziotti e finanzieri (e pertanto anche i membri della Polizia Penitenziaria) esercitano il doppio lavoro. “E tra appuntati e brigadieri, tra agenti e assistenti di polizia – prosegue Acerra – la media arriva fino al 40-50 per cento. In pochissimi però, non più di uno su dieci, hanno l’autorizzazione del ministero”.
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Una problema, quello inerente alla Polizia Penitenziaria doppio lavoro, che mostra tutte le sue asperità in una disciplina probabilmente troppo restrittiva, soprattutto in tempi (quelli attuali) in cui indossare la divisa non significa in alcun modo portare a casa stipendi altisonanti: anzi, spesso risulta difficile ottenere uno stipendio dignitoso. Basti pensare che un agente di Polizia Penitenziaria guadagna circa 1200 euro netti mensili.
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Anche per questo motivo lo Stato permette ai suoi tutori dell’ordine di svolgere un lavoro extra, ma solo a determinate condizioni e con la imprescindibile autorizzazione scritta del ministero di competenza. È certamente possibile oggi effettuare prestazioni in regime di part-time: queste ultime però non possono rientrare nella categoria delle libere professioni e non debbono in alcun modo porre a repentaglio il pregresso servizio presso il corpo di polizia. Assolutamente proibite sono inoltre le attività reputate troppo stressanti o in cui possano sorgere conflitti di interesse, come nei casi di aziende di investigazione o vigilanza privata.
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Insomma quello inerente alla Polizia Penitenziaria doppio lavoro si configura come un tema che assume rilievo nell’odierno periodo storico: un tema da approfondire, da comprendere con attenzione e suscettibile di modifiche disciplinari compatibili con le necessità attuali.
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Si tratta senza dubbio di uno degli argomenti che scaldano maggiormente gli animi tra le varie scuole di pensiero che allignano all’interno del pubblico impiego in Italia: la questione afferente ai dipendenti pubblici doppio lavoro attraversa diverse e variegate sfere della materia attinente alla gestione dell’amministrazione pubblica, e come tale si presta ad interpretazioni e prese di posizione fortemente polarizzate.
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Fonte: ocst.com
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Va innanzitutto analizzato ciò che la legge afferma nel nostro paese riguardo al tema dei dipendenti pubblici doppio lavoro: in questo senso il Decreto Legislativo n. 165 del 30 marzo 2001 statuisce, senza troppi timori o dubbi, il generale divieto per i dipendenti statali di svolgere un secondo lavoro. Esistono tuttavia delle deroghe, di carattere tassativo, a favore, per esempio, dei lavoratori a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno. Questi ultimi possono pertanto effettuare una attività lavorativa (di tipo subordinato oppure autonomo) qualora non esista alcun tipo di conflitto di interessi con le funzioni esercitate per conto della Pubblica Amministrazione.
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È evidente, però, che nella pratica delle cose e nella contingenza degli accadimenti presenti (fortemente condizionati dalla crisi economica) il doppio lavoro per i dipendenti statali si configura come esorbitante i limiti imposti dalla legislazione italiana: nel corso del 2012, per esempio, la Guardia di Finanza ha puntato la sua lente di ingrandimento su 879 casi nei quali il secondo lavoro si configurava come “lavoro nero”. Le oltre 300 indagini concluse nel corso di quell’annata hanno permesso di accertare oltre 5 milioni di euro percepiti indebitamente a causa dell’ulteriore lavoro nero: pertanto ogni dipendente pubblico “doppiolavorista” ha incamerato di nascosto dal Fisco uno stipendio di oltre 14mila euro. Non esattamente bruscolini, o piccoli “extra” dall’impatto veniale.
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La materia inerente ai dipendenti pubblici doppio lavoro si presta senza ombra di dubbio a pareri discordi: c’è infatti tra i dipendenti statali chi ne invoca la necessità per sopperire ai basi stipendi (con scatti di anzianità ed adeguamenti congelati) e per fare fronte alle numerose spese imposte dalla quotidianità (si fa spesso riferimento a indifferibili spese mediche). Motivazioni legittime ma che non paiono possedere la forza giuridica per invertire la tendenza normativa che vede il pubblico impiego come occupazione precipuamente esclusiva: è infatti il principio di esclusività che sovrintende alla materia inerente ai dipendenti pubblici doppio lavoro.
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Utilizzando parole usate più volte dalla Corte dei Conti per definire controversie in tema, si configura come “incompatibile qualsiasi attività non pertinente al rapporto di impiego che, per intensità, prevalenza, continuità costanza e professionalità, individui la realizzazione di un nucleo di interessi estranei ai doveri d’ufficio”. Ovviamente, come detto in precedenza, vanno escluse le attività esercitate in maniera occasionale.
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In questa direzione pare interessante citare un caso concreto avvenuto nella Regione Trentino: qui ad un infermiere sono state contestate attività svolte in un biennio presso una cooperativa esterna in assenza di preventiva e specifica autorizzazione. Il dipendente pubblico aveva un contratto part-time pari e poteva pertanto svolgere legittimamente altre attività ma avrebbe dovuto comunque comunicarlo all’Azienda Sanitaria dal momento che questa tipologia di incarichi per regolamento non possono essere svolti in “conflitto di interessi”. In questo caso sussisteva conflitto di interessi poiché il dipendente svolgeva presso terzi la medesima attività di infermiere: quest’ultimo è quindi stato condannato ad un risarcimento di circa 8mila euro, cifra equivalente agli stipendi ricevuti dal dipendente da parte dell’Azienda sanitaria nel periodo di coabitazione dei due lavori.
Va pertanto tenuto conto di diverse variabili per definire la legittimità o meno in materia di dipendenti pubblici doppio lavoro.
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